La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi

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Presto ho scoperto di essere morta. Questo è l’incipit dell’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi.
Si parla di una donna, una voce narrante senza nome, che ha perso l’uso delle gambe in un incidente stradale e ha vissuto i primi anni della sua nuova vita bloccata in una rabbia sorda, inespressa, che crede di poter dominare. Senza riconoscersi nel proprio corpo nasconde le foto, allontana i ricordi di quando danzava, getta via le scarpe col tacco.
È attraverso una fotografia scattata a Taormina che si entra in contatto la prima vita della protagonista, un’immagine di una se stessa in moto, libera, questa donna non c’è più. La vita successiva prende il via dentro un corpo sconosciuto e lacerato, che fa la metà delle cose che era abituato a fare prima.
Si potrebbe parlare di autofiction - Philip Roth, in una recente intervista, afferma: ho smesso di scrivere opere di narrativa perché la realtà ha superato di gran lunga la fantasia - ma forse è più appropriato parlare di una riflessione letteraria e poetica sul corpo, dove risuonano echi cyborg, post-organici, corpi di supereroi che sconfiggono la morte.
I miei bisogni sono diventati cogenti: attenzione ai batteri, sempre pronti a banchettare in un corpo indebolito, attenzione agli ostacoli, dice la protagonista, ma assieme alle apprensioni alla paura delle malattie, si fa strada la consapevolezza che senza la ricerca scientifica il suo corpo, innestato e fortificato dalla moderna medicina, non sarebbe in vita; che abbandonata nella foresta, lei non potrebbe sopravvivere.
A vent’anni si credeva invincibile, mentre ora, che ha abbassato l’orizzonte, si trova spesso a fissare il linoleum, gesto che sottolinea, nei passaggi in cui ricorre, la vulnerabilità della sua condizione.
Un incontro - in una cabina di fisioterapia - è destinato ad aprire nuovi scenari. In primis è una voce, ‘musicale, argentina, piena di scarti e risate, come di acqua che attraversi i coralli’, poi con la donna in persona, a imporsi alla sua attenzione; è quella di Giovanna, anch’essa in sedia a rotelle, senza una gamba (indossa una protesi) e con l’altra paralizzata. Seppur in questa condizione, viene descritta nella sua femminilità, seducente, con il rossetto, un fascino felino. La si immagina addirittura mentre attraversa ancheggiando le stanze. Sembra invincibile, è piene di energia, è combattiva, allegra, aperta, tutto il contrario della voce narrante. Giovanna diventerà da un lato specchio, dall’altro guida, rappresenterà non tanto un’amica, quanto l’incontro decisivo, quello destinato a condurre la protagonista verso una riconciliazione col nuovo corpo, sia da un punto di vista intimo, ma soprattutto passando attraverso la pratica, la quotidianità, le manovre e i gesti nuovi che il corpo nuovo impone e che lei aveva fino a quel momento eluso. In questo senso, il romanzo assume i connotati del Bildungsroman, inteso come percorso di crescita della protagonista, maturazione verso l’età adulta e integrazione nel mondo.
Si frequentano, Giovanna è appassionata di danza, si circonda di foto di danzatori, la voce narrante danzava ma ha sepolto i ricordi.
Cosa ti manca? chiede Giovanna, lei le mostra un passo di danza manovrandosi le gambe con le mani, nota che i piedi sono diventati più lisci, come quelli dei bambini, da quando le gambe sono inermi.
Giovanna ha il potere di far scoprire alla protagonista il diritto di desiderare.
Tra le pagine affiora la domanda: cosa significa avere consapevolezza del proprio corpo? C’è per tutti una fase di incomprensione del proprio corpo. Oggi siamo abituati a manipolarlo, a piegarlo, ma è comunque esperienza molto comune dover trovare un punto di riconciliazione con esso, è sinonimo di crescita, di maturazione, accettare il proprio corpo, ma allora questa esperienza: portare in giro il proprio disagio, superarlo, a tratti, in ragione delle circostanze esterne, dell’energie a disposizione, dell’amore altrui, non è infondo, banalmente, il modo in cui vivono tutti?
La Donnagatto fa scoprire alla voce narrante la capacità di condividere le difficoltà, di aiutarsi, anche se la misura del dolore resta sempre individuale, perché resta sempre uno scarto, nella dimensione di quello che prova una persona che cammina incontrandone una che non cammina più, vedendo in questa persona un pericolo scampato a sé e il dolore intimo, personale, inestinguibile, resta.
Il romanzo è diviso in tre parti, la terra, l’aria e l’acqua.
La prima parte è quella della nostalgia dei piedi per terra, ma anche luogo in cui si è svolta la tragedia, e dell’apprendistato verso un nuovo contatto con la terra, qui si narrano gli episodi di ribellione di Donnagatto con la quale si sviluppa un rapporto di attrazione e repulsione.
L’aria è il lungo spazio sospeso in una notte passata con la Donnagatto, nel suo lavoro, dentro il suo inferno, a capire cosa c’è dietro la sua forza, a misurare il suo senso d’adattamento, andare a fondo. Si snodano i ricordi delle visite in cui il medico sonda la sensibilità del corpo “danneggiato”, l’essere sottoposta a visite di equipe mediche che scandagliano il corpo, esaminano la paziente, che non è più persona, bensì paziente appunto. Accanto c’è Giovanna, il suo passare il tempo mentre telefona, i suoi di ricordi in ospedale, dopo il suo incidente, come scopre di non avere più la gamba, le speranze di poter recuperare miracolosamente l’uso degli arti.
Nell’ultima parte, l’acqua, i cordoni sono recisi, la Donnagatto, dopo quella notte in cui si sono sviscerate a vicenda, scompare dalla sua vita, va, forse, in Thailandia, sognava di viaggiare. La protagonista compie il suo viaggio di trasformazione, come essere nell’acqua, un nuovo elemento che non richiede di essere bipedi, un elemento in cui si può volteggiare anche senza arti, è l’evoluzione intima, la crescita, di quando ci si accorge che la funzione di Giovanna è stata quella di accompagnare, di educare la donna a entrare finalmente nei suoi limiti.
Presto ho scoperto di essere morta, da subito si percepisce di trovarsi in un terreno impervio, il romanzo si apre con l’idea di cesura, c’è una vita prima, una vita poi e nel mezzo un passaggio di adattamento e, quando si approda nella nuova vita, è come rinascere, perché ciascuno di noi è molte vite e ha attraversato molte morti.
Il lavoro sulla lingua è intenso, poetico. La lingua del trauma è una lingua scientifica, medica, il corpo è descritto tecnicamente, insistendo sulle parti anatomiche, come se ci fosse un piacere perverso nello sprofondarci dentro. Ricorda il piacere di Vaughan, scienziato macabro di Crash di Ballard, ammaliato dall’erotismo dei corpi lacerati dalle lamiere.
Entrati in questo romanzo si parte per un viaggio dove ogni capitolo è un ritorno, un barcamenarsi tra pezzi di corpi e pensiero astratto, verso il sentiero dell’immaginazione, in cui episodi del passato (gli arti infreddoliti da bambina, osservare disabili in difficoltà) diventano presagi della vita futura, in cui la propria condizione diventa promessa evolutiva, un passo indietro nell’evoluzione della specie. Il tiktaalik, pesce che ha sviluppato zampe palmate per uscire dall’acqua, diventa l’occasione per elaborare un pensiero magico, per nutrire la speranza che anche il proprio corpo possa seguire, nel tempo compresso della propria vita, i passaggi evolutivi che portano all’uso delle gambe e dall’altro la consapevolezza che la propria condizione non potrebbe reggere la lotta per la sopravvivenza, eppure conta nella sua unicità, non certo nell’irraggiungibile e utopica idea di normalità, che spesso viene confusa con l’addomesticazione.
Un romanzo giocato sull’idea del doppio, sulla separazione, a partire da quella prima immagine di Mc Enroe che s’inchina di fronte a un se stesso giovane, proseguendo poi l’interesse ossessivo, delle due coprotagoniste, per le biografie di personaggi famosi: la vita di Pistorius che da supereroe si ritrova storpio, Nureyev e il suo corpo malato che continua a ballare, le foto della prima di vita, che non c’è più, l’attenzione ai ricordi e ai pensieri magici, momenti in cui si aprono finestre. La nostra vita è un continuo prendere congedo con il sé che non c’è più.
Il romanzo, che si apre con immagini truculente di midollo spinale, materia che fuoriesce da corpi spezzati in due, si conclude con una nuotata liberatoria.  L’umanità che si salva immagina. La morte dell’incipit è una nuova vita.

Riflessioni del pedone in C4



Ti ringrazio Signore per avermi messo in questa posizione, la colonna C, che adoro. Non troppo defilata, non troppo caotica e pericolosa, la giusta via di mezzo.
I giorni felici della mia esistenza sono stati tanti, ma oggi sento che sarà il mio giorno, percepisco l’armonia del mondo e ne contemplo la bellezza.
La Tua mano divina mi accompagna, mi sospinge con amore.
Prima casella, seconda casella, striscio sul feltro usurato della mia base, l’arrivo nella casella C4 è meraviglioso. Sono il primo, terreno immacolato, nessuno intorno.
I miei compagni bianchi sono ormai lontani, non odo più il loro trepidante vociare, mentre gli avversari neri ancora non si sono mossi.
Euforico per la grandiosità di questo spazio mi sento piccolo di fronte al Tutto.
Da qui è possibile guardare gli accadimenti e poi agire o attendere, sono pronto al sacrificio per salvare il Re se così vorrà la Tua volontà.
L’orologio è partito, sento il suo ticchettio, un’ora per noi e un’ ora per i neri, tra due ore tutto sarà finito.
Ancora qualche attimo e il fragore della battaglia invaderà questo silenzio.
Attendo tranquillo.
Un brivido mi percorre mentre vedo avanzare il pedone nero mio dirimpettaio, non strisciando, ma con un leggiadro atterraggio sta per occupare la casella C5... ma la vista mi ha ingannato, nessuno si è mosso.
Mi volgo verso i miei compagni, il loro sguardo è concentrato, non lascia trasparire emozioni, fremono per il loro ingresso.
Guardo di fronte, all’orizzonte è tutto fermo.
I minuti passano.
Apprezzo la posizione perfetta all’interno del mio piccolo quadrato, a volte sono leggermente fuori centro e non mi piace. Se sono al limite del perimetro, mi prende un senso di vertigine, a stare in bilico temo di cadere.
Il nero non viene avanti. Nulla si muove.
Non capisco questa assenza, di solito il nero non tarda, non vuole sciupare tempo.
Sono impaziente, qui, in mezzo alla scacchiera, ad aspettare.
Comincio a dubitare. Forse non verrà.
Lo spazio ampio che ho attorno ora mi inquieta, non sono abituato.
Dietro di me i pezzi bianchi, ligi alle regole, non si muovono, nessuno si avvicina.
Mi piacerebbe essere rassicurato, avere notizie.
Non c'è stata risposta alla mia avanzata e nemmeno segnale di resa.
Forse il nero si è ritirato senza avvertire.
Una partita di una mossa sola. Che senso ha?
Bianco e nero devono combattere tra loro. Usciamo dalla scatola e la nostra esistenza è volta a creare combinazioni, intrecci, duelli. Ma oggi non c'è alcun duello. Perché è tutto fermo? Perché sono qui da solo?
Attendo mio Signore, ma non capisco il Tuo progetto.
Le lancette dell'orologio sono avanzate, hanno sollevato la bandierina rossa, quando cadrà, tra cinque minuti, il tempo sarà finito.
Ormai la partita è rovinata, è una grande delusione questa triste giornata.
Nessuno avanza. Nessuno mi affianca. Nessuno si scontra con me. Nessuno mi accompagna. Nessuno.
Non voglio buttare la partita, non voglio stare solo ad aspettare.
Vorrei che rientrassimo tutti nella scatola. Fammi rientrare, Ti prego!
La bandierina rossa è caduta e l'orologio si è fermato.
Si sta facendo buio, mi guardo intorno, a stento vedo i bianchi e i neri.
L'oscurità aumenta e io ho paura.